Guia – Ascolto, empatia e Vangelo – Vita consacrata 4.2019

 

Ascolto, empatia e Vangelo.

“Dall’interiorità più profonda si irradia l’essenza,
esce involontariamente da sé. Quanto più l’uomo
vive raccolto nell’interiorità più profonda dell’anima,
tanto più forte è l’irradiazione che parte da lui
e attira altri nella sua scia.”
         Edith Stein, Essere finito e Essere eterno

    Uno dei temi che attraversano in filigrana i sei anni del pontificato di papa Francesco è quello dell’ascolto: ascolto di Dio e di Gesù, naturalmente, e ‒ in parallelo ‒ ascolto della voce dei poveri, degli emarginati, dei lontani, dei giovani, dei laici, delle vittime di abuso sessuale o psicologico, e dell’intero pianeta. Non è azzardato pensare che se i cattolici, più di un sesto della popolazione mondiale, già esprimessero un buon livello di ascolto non vi sarebbe alcun bisogno da parte del vescovo di Roma di esortare il popolo di Dio in questa direzione.
    La mancanza di ascolto è una preoccupazione anche dei più attenti rappresentanti del mondo secolare. In una recente conferenza alla London School of Economics, Jim Macnamara, esperto di comunicazione sociale incaricato dal governo della Gran Bretagna di mettere a punto una strategia di comunicazione in grado di scongiurare sorprese simili a quella del referendum sulla Brexit del 2016 (e dell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti) ha sostenuto la tesi della crisi di ascolto da parte dei vertici politici ed economici dei paesi occidentali con una lunga serie di dati. Il tempo che le istituzioni da lui consultate dedicano all’emissione e alla distribuzione dei messaggi, per esempio, oscilla tra l’80 e il 95 %; il tempo rimanente, dedicato alla ricezione e alle risposte al pubblico, è in genere caratterizzato da un tipo di ascolto strumentale, finalizzato all’individuazione di sostenitori o di consumatori potenziali. Le comunicazioni che agenzie governative e grandi corporation rivolgono all’immenso bacino dei rispettivi interlocutori, nella maggior parte dei casi, sono a senso unico e mirano a veder confermati aspettative e obiettivi già formulati alla fonte. Il 70% dei cittadini della Gran Bretagna ritiene che il governo centrale non li ascolti o non consideri minimamente quello che dicono.
    Negli ultimi mesi due voci in particolare si sono levate a denunciare le conseguenze che l’attuale crisi di ascolto produce nella società civile e nella vita del pianeta: la Pontificia Accademia delle scienze sociali, riunita in sessione plenaria i primi giorni di maggio, ha espresso grave preoccupazione per la politica discriminatoria e antidemocratica attuata dai governi sovranisti oggi alla guida di molte nazioni del mondo; e il rapporto firmato a Parigi dai rappresentanti di 130 paesi membri dell’IPSBES,[1] l’organismo dell’Onu sulla biodiversità, segnala l’imminente estinzione di un milione di specie viventi, pari all’1/8 del totale, a opera dell’uomo e delle sue attività.

    In chi non ha alcun potere la scala degli effetti direttamente o indirettamente collegati alla mancanza di ascolto provoca le vertigini. Mi piace tuttavia pensare che le vertigini siano una forma di preghiera. Ed è nella preghiera che il dono della speranza trova il terreno migliore. Il regno di Dio, insegnano le Beatitudini, appartiene alle persone senza potere: i poveri, i miti, coloro che hanno fame e sete di giustizia e i perseguitati di ogni epoca. Anche la nostra. Il Regno dei cieli, si direbbe oggi, appartiene a coloro che non ricevono ascolto.
    Per quanto paradossale possa sembrare, noi cristiani sappiamo che il regno di Dio non solo è vicino, ma è già qui; quali discepoli di Gesù, poi, siamo chiamati a dare il nostro contributo affinché il non-ancora del Regno, il terrificante non-ancora al quale quotidianamente assistiamo, si trasformi in un già che riguarda il più grande numero di realtà e di persone possibile.[2] Dunque, oltre alla preghiera, abbiamo anche il compito, questa volta alla portata della nostra intelligenza, della nostra volontà e delle nostre possibilità, di cercare, trovare e infine coltivare con estrema cura il seme della pianta dell’ascolto oggi a rischio di estinzione.

    Se, come sembra, la mancanza di ascolto è il minimo comune denominatore di molti problemi del mondo contemporaneo, il primo passo sta nel capire in che cosa consiste il fenomeno dell’ascolto. Che cosa si intende ‒ esattamente ‒ per ascolto? Il secondo passo, poi, sta nel chiederci se ciò che intendiamo per ascolto sia adatto a rispondere alle mutate circostanze nelle quali ci troviamo a vivere oppure non vada declinato attingendo a strumenti e competenze in grado di rispondere in modo più adeguato ai bisogni espressi da persone spesso molto lontane dalla nostra cultura di appartenenza. La chiave capace di aprire le porte di un buon livello di ascolto va forse forgiata con un metallo diverso? Forse va sostituita con un telecomando?

    Un termine oggi spesso associato all’ascolto e che qualifica l’ascolto in positivo è “empatia”, coniato in ambito filosofico alla fine dell’800. Sebbene non esista ancora consenso sulla natura del fenomeno dell’empatia, è tuttavia possibile affermare che la differenza tra “ascolto” e “ascolto empatico” sta nel fatto che il primo ha un carattere discrezionale: chi ascolta può revocare a proprio piacimento l’ascolto prestato all’altro; mentre il secondo nasce da una relazione ‒ desiderata o già esistente ‒ e dunque ha radici più profonde. L’ascolto empatico non è un’operazione razionale ma affettiva. È immediato. È incarnato. In quanto tale, sfugge più facilmente alle dinamiche di controllo e di potere.
    Dopo alcuni decenni di relativo silenzio, nei quali furono privilegiati soprattutto gli studi sulla consapevolezza e la soggettività, le ricerche sul fenomeno dell’empatia sono rifiorite intorno agli anni ’90, grazie alle importanti scoperte sul cervello umano da parte delle neuroscienze e in particolare alla scoperta dei neuroni specchio. Fino alla fine del secolo scorso l’unico testo interamente dedicato all’empatia era la tesi di dottorato di Edith Stein, pubblicata nel 1917.[3] La sua teoria sull’empatia, come vedremo, ancora oggi rimane insuperata. Dopo la conversione al cattolicesimo e l’ingresso al Carmelo, Edith Stein ‒ Teresa Benedetta della Croce ‒ abbandonò la ricerca sull’empatia per dedicarsi allo studio della relazione con Dio.[4] La morte ad Auschwitz per mano nazista interruppe anche questo secondo percorso di ricerca. Non ci è dato sapere se sarebbe tornata a quel primo interesse per esplorare il modo in cui la realtà della relazione con Dio e la realtà della relazione tra persone sono collegate. Scendere dalla vetta dell’unione mistica alle valli dell’intersoggettività per scoprire se l’empatia tra esseri umani può favorire il dialogo e l’incontro con Dio e, viceversa, se la relazione con Dio può favorire la crescita dell’empatia tra esseri umani ‒ di nuovo ‒ è un compito che spetta a noi.

    Come spesso accade, alla strabiliante scoperta che nel cervello esistono circuiti e impulsi neuronali che consentono di conoscere e fare esperienza delle emozioni altrui, e dunque che la specie umana è relazionale per natura, non è ancora seguita un’intesa sulle caratteristiche dell’empatia. Le varie comunità scientifiche indicano con questo termine fenomeni molto diversi: 1) empatia come conoscenza dello stato interiore di un’altra persona; 2) empatia come identificazione con la situazione dell’altro; 3) empatia come processo che porta a sentire ciò che l’altro sente; 4) empatia come proiezione di sé nella situazione dell’altro; 5) empatia come immaginazione di quello che un’altra persona sta pensando e provando; 6) empatia come immaginazione di quello che si potrebbe pensare al posto dell’altro; 7) empatia come sentire dolore nell’osservare la sofferenza dell’altro; 8) empatia come sentimento provato verso un’altra persona che soffre.[5] La differenza tra queste otto definizioni dipende, secondo Daniel Batson, dal fatto che il fenomeno dell’empatia è chiamato a rispondere a due domande diverse: “Come si può sapere che cosa un’altra persona sta pensando e sentendo?” e “Che cosa induce una persona a rispondere con sensibilità e attenzione alla sofferenza di un’altra persona?” La prima domanda, orientata a capire i meccanismi che consentono di provare la stessa emozione che l’altra persona sta vivendo, viene posta soprattutto in ambito filosofico, psicologico e neuroscientifico. La seconda domanda, orientata al modo in cui conoscere i sentimenti e i pensieri dell’altra persona possa aiutare a prendersi cura del suo benessere, viene posta soprattutto negli ambiti dedicati alla cura, medicina, infermieristica, assistenza sociale e scienze dell’educazione e della formazione. Nel primo caso, il fenomeno dell’empatia è correlato al contagio emotivo, nel secondo caso alla compassione, alla simpatia, al sentire-con.

    L’assenza di consenso da parte delle comunità scientifiche, peraltro, non ha impedito il diffondersi di questionari sull’empatia destinati a misurare il livello di funzionamento nelle relazioni sociali e, in particolare, a indicare eventuali disturbi dello spettro autistico. Uno di questi, l’Empathy Quotient (EQ), distribuisce le risposte su una scala da 0 a 80. I punteggi inferiori a 18 indicano possibili disturbi che verranno poi esaminati con strumenti specifici. I punteggi medi, circa 47 punti per la maggior parte delle donne e 42 punti per la maggior parte degli uomini, sono considerati indice di “normalità”. I punteggi molto alti, scrive Simon Baron-Cohen, autore del questionario insieme al team dell’Autism Research Centre dell’Università di Cambridge, esprimono livelli di empatia quali si potrebbero attribuire, per esempio, all’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, a Nelson Mandela, o a Madre Teresa. Baron-Cohen precisa poi: “A mio avviso, la super-empatia è certamente positiva, ma forse questo è vero solo da un punto di vista molto altruistico. In ogni caso, l’altruismo non è necessariamente uno stile di vita sostenibile per sette giorni alla settimana. Se ti concentri soltanto sugli altri, corri il rischio di trascurare i tuoi bisogni. […] Probabilmente, la ragione per la quale l’empatia forma una Bell curve (in cui la maggioranza delle persone mostra livelli di empatia moderati, anziché alti) è perché i livelli di empatia moderati sono più flessibili. Mettere troppo al centro gli altri significa non perseguire mai le proprie ambizioni, o evitare di agire in modo competitivo per paura di inquietare o sminuire gli altri.”[6] È questa un’opinione largamente condivisa in ambito clinico, nel quale spesso si sostiene che alti livelli di empatia siano professionalmente controproducenti ed espongano gli operatori al rischio di burn-out. Al contrario, io credo che, soprattutto in un’epoca come la nostra segnata da una capacità di ascolto così pericolosamente bassa, correre quel rischio sia imperativo. In ogni contesto sociale. Siamo davvero certi che il burn-out degli operatori dipenda da troppa sensibilità nei confronti delle persone che vengono affidate alle loro cure e non piuttosto da fattori del tutto diversi, quali per esempio sovraccarico di lavoro, organizzazione verticistica delle mansioni, poca attenzione nei confronti del benessere e del mondo di vita degli operatori stessi? Siamo davvero certi che scarsa professionalità e burn-out non dipendano piuttosto da una sistemica mancanza di ascolto? In ogni caso, qualora il livello di empatia dei singoli o dei gruppi di lavoro si dimostrasse eccessivo, non converrebbe forse preoccuparsi di trovare gli antidoti strada facendo, anziché escluderla del tutto o cercare di imbrigliarla, continuando a proporre modelli che già si sono rivelati fallimentari?
    Senza entrare nel merito delle tecniche di matrice buddhista come la mindfulness, da alcuni anni molto diffusa anche nelle istituzioni ospedaliere pubbliche e implicitamente orientata a tenere a bada l’empatia, vorrei suggerire a coloro che sono aperti alla spiritualità cristiana e all’incontro con Gesù quale Maestro e modello di tutte le virtù umane e dunque anche di empatia, un’esperienza che va nella direzione opposta.

    Per noi cristiani è immediato associare buona capacità di ascolto e alto livello di empatia al doppio comandamento dell’amore che Gesù ci ha consegnato (Mt 22,37-40; Mc 12,29-31; Lc 10,25-28; e Gv 13,34 e 15,12-17. Al contempo, siamo costretti ad ammettere che credere nell’amore e praticare l’amore sono realtà molto diverse, e che a ogni generazione è necessario riformulare quel fondamento di fede alla luce dello spirito dei tempi, affinché possa essere compreso prima di tutto da noi stessi. Limitarci a invocare il principio dell’amore e il tipo di ascolto che ne discende non è sufficiente. L’amore va dimostrato nei fatti. E in parallelo va nutrito leggendo, studiando, meditando e contemplando le Sacre Scritture. Come per tutto ciò che riguarda la nostra crescita spirituale e il nostro vivere nel mondo, anche per capire il fenomeno dell’empatia e poter rispondere efficacemente e amorevolmente ai bisogni del prossimo, dobbiamo rivolgerci a Gesù e contemplare la sua umanità. La chiave ‒ molto antica, sì, ma universale ed eterna ‒ che apre le porte dell’ascolto-amore è custodita nel mistero della sua incarnazione, della sua vita, morte e resurrezione. Le Scritture sono al tempo stesso il tesoro che quella chiave apre e la formula del metallo con cui è forgiata e che la rende potenzialmente duplicabile all’infinito.
    Il Primo Testamento è il racconto dell’ascolto che Dio offre al suo popolo e all’umanità intera. In particolare, i Salmi sono la voce di Israele che celebra l’ascolto di Dio e implora Dio di continuare a prestargli ascolto; i Profeti testimoniano la reciprocità dell’ascolto: in loro il desiderio umano di essere ascoltati da Dio si trasforma in capacità di ascoltare le comunicazioni divine e al tempo stesso diventare canali affidabili perché altri possano ascoltarle. I Vangeli portano nel cuore dell’ascolto divino, presentando il modo in cui Gesù si pone sia in ascolto del Padre sia delle persone che incontra tramite situazioni molto precise. Incarnate.

    In un certo senso, per comprendere l’empatia alla luce della fede cristiana è sufficiente interrogare le Scritture affiancando alle voci “amore” e “ascolto” delle Concordanze le informazioni con cui i filosofi e gli scienziati via via dimostrano che si tratta di un fenomeno costitutivo ed essenziale della natura umana. Pace Cartesio, la vita è relazione. Gli esseri umani non sono isole, “sono” in quanto soggetti-in-relazione: con Dio, tra loro e con l’intero universo, dal Big Bang a oggi. Per l’uomo e la donna contemporanei aprirsi all’ascolto empatico dell’altro, qualsiasi altro si incontri sul cammino, prendere consapevolezza dei movimenti interiori che distinguono l’ascolto dal non-ascolto, dall’indifferenza e dal disprezzo significa aprirsi sempre di più all’amore. L’empatia, si potrebbe concludere, è dunque un dono da aggiungere all’elenco di doni di cui san Paolo scrive nella Prima lettera ai Corinzi (1Cor 12,31-13-8a). Come l’amore, può essere ignorata, rifiutata, fraintesa o banalizzata ma, quando l’accogliamo, ci rende parti ancora più preziose del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa (1Cor 6,12-20; 1Cor 19,14-22; 1Cor 12,4-27; Rom 12,4-5; Lumen Gentium 1,7).
    Un secondo dono che riceviamo quali figlie e figli del nostro tempo è la predisposizione a verificare empiricamente ciò che viviamo. In un’accezione limitativa, positivistica, questo significa credere soltanto a quello che può essere confermato da evidenze di tipo materiale, “oggettive”. Nel XX secolo, infatti, si è arrivati a riconoscere l’esistenza dell’empatia (amore per il prossimo) perché esistono macchine in grado di fotografare le aree del cervello che si attivano in risposta agli stimoli emotivi ricevuti dall’interlocutore. Allo stesso modo, si può parlare di contemplazione perché le stesse macchine ne registrano l’effetto pacificante su altre aree del cervello. Chi prega, però, non ha alcun bisogno di quel tipo di prove. Sono cose che sa da millenni. Edith Stein non ha intitolato Scientia Crucis il suo ultimo libro per un capriccio retorico. Anche quando non dimostrabile secondo i criteri scientifici moderni, tutto ciò di cui scrive è vero perché ha trovato conferma nella sua esperienza. Come i grandi dottori della Chiesa prima di lei, come sant’Ignazio di Loyola, santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce, Edith Stein scrive solo ciò di cui ha certezza, una certezza maturata nell’ascoltare lo Spirito che parla in lei. Per questo chi legge i suoi scritti li trova tanto convincenti.
    L’intuizione fondamentale che distingue la sua teoria dell’empatia dalla maggior parte delle interpretazioni correnti è che si tratta di un fenomeno più complesso della semplice percezione dello stato emotivo dell’altra persona. L’empatia è un processo che si sviluppa in fasi successive. Il soggetto empatizzante, come gli esperimenti con la risonanza magnetica dimostrano, vive l’emozione dell’altra persona, sì, ma poi esce da sé, viene attirato nel campo esistenziale dell’altra persona, e infine torna in se stesso, riconosce che l’altra persona è altra da sé e, nel caso in cui soffra, decide di aiutarla. Le fasi successive all’iniziale identificazione mimetica, tuttavia, non sono misurabili né quantificabili: sfuggono agli strumenti di rilevazione empirica. Si conoscono indirettamente, tramite gli effetti che producono. Proprio come l’amore, la gioia e il dolore.

    Una delle domande che informano gli studi sull’empatia, come abbiamo visto, riguarda i metodi con cui essa possa eventualmente essere appresa. A oggi, nessuna delle teorie che attribuiscono il nome di empatia soltanto alla prima fase ‒ il mettersi nei panni dell’altro ‒ è in grado di suggerire strumenti efficaci in quel senso. Solo la teoria di Edith Stein spiega il paradosso per il quale l’empatia è al tempo stesso una caratteristica innata e una qualità che può essere coltivata. Solo riconoscendo l’intenzionalità che segue alla percezione della sofferenza dell’altro si può intervenire per aumentare il livello di disponibilità di coloro che si preoccupano per il benessere del prossimo. Solo interpretando l’esito delle diverse fasi di empatizzazione quale espressione libera e consapevole si può nutrire nelle persone il desiderio di estendere l’amore che già provano per i loro cari a tutte le persone con cui entrano in contatto, i lontani, gli stranieri, i diversi da sé. Infine, solo mettendo lo Shema al primo posto ‒ Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze ‒ ci si sottrae alla tentazione di preferire a Dio gli idoli che promettono di soddifare miserrimi desideri di ricchezza e potere a scapito del bene altrui. Quando si arriva a questo, l’empatia smette di essere un concetto, un semplice comportamento umano da studiare, e diventa danza.

    Gesù, il Maestro, ci invita a fare del nostro meglio affinché ascoltare lo spirito del Padre sia possibile per noi come lo è stato per lui. Se in preghiera gli chiediamo la grazia di farci conoscere in che modo l’empatia si è espressa nella sua divina umanità, aprirà il cuore della nostra intelligenza spirituale.[7] Trasformerà il seme dell’empatia che portiamo in noi dalla nascita in un albero altissimo, capace di accogliere molti uccelli del cielo, di ascoltare il loro canto e riconoscervi le personalissime note di lode con cui celebrano la bellezza e l’amore che abitano il regno di Dio insieme ai cori celesti.

[1] “Nature’s Dangerous Decline ‘Unprecedented’ Species Extinction Rates ‘Accelerating’”, Comunicato stampa, Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), https://www.ipbes.net/news/Media-Release-Global-Assessment (Ultimo accesso, 24 maggio 2019).

[2] Gaudium et spes (1965) affermava essere responsabilità della Chiesa universale favorire il “dinamismo sociale … il progresso di una sana socializzazione e della solidarietà civile ed economica (GS 42).

[3] Edith Stein, Il problema dell’empatia (Zum Problem der Einfühlung, 1917).

[4] In particolare, Edith Stein, Essere finito ed Essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere (Endliches und ewiges Sein, 1937) e Scientia crucis (1938-1942), un commento all’opera di san Giovanni della Croce. 

[5] C. Daniel Batson, “These Things Called Empathy: Eight Related but Distinct Phenomena”, in The Social Neuroscience of Empathy, a cura di J. Decety J e W.J. Ickes, MIT Press, Cambridge, MA, pag. 3-15.

[6]  Simon Baron-Cohen, The Science of Evil. On Empathy and the Origins of Cruelty, Basic Books, New York 2011, p. 188. Traduzione mia.

[7] Un percorso per iniziare l’esplorazione contemplativa sul modo in cui Gesù ha manifestato empatia potrebbe includere gli episodi evangelici in cui, esplicitamente o implicitamente, compare l’affermazione “La tua fede ti ha salvato”: Mt 9,20-22//Mc 3,25-34//Lc 8, 43-48 (L’emorroissa); Lc 17,11-19 (I dieci lebbrosi); Mc 10,46-52 (Il cieco di Gerico); Lc 7,36-50 (La peccatrice); Mt 8,5-13 (Il servo del centurione); Mt 9,14-29// Mc 7,31-37 (Il sordomuto); Mc 9,14-29 (Il ragazzo epilettico); Lc 23,39-43 (Il buon ladrone).

Sambonet_empatia.pdf

Immagine in evidenza:
Bramantino, Noli me tangere, 1498-1500 circa. Particolare

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